In occasione del 104esimo anniversario della fondazione dei Fasci di Combattimento riproponiamo questo articolo di Adriano Scianca
Roma, 23 mar- Immaginiamola oggi, quella riunione del 23 marzo 1919: un giornalista e politico, già noto per i suoi repentini cambi di posizione che si sospetta essere stati ispirati dai finanziamenti dei servizi segreti francesi, fonda il suo movimento in una sala in piazza San Sepolcro, a Milano, messa a disposizione dall’Associazione lombarda degli industriali per il tramite di Cesare Goldmann, imprenditore e massone di origine ebraica. Chissà quanti intransigenti, quanti cultori degli imperativi geopolitici, quanti segugi di false flag, quanti custodi della purezza ideologica avrebbero denunciato l’evento come snodo cruciale del grande complotto. E magari ce ne furono anche all’epoca, chissà. Solo che la storia non ne ha tramandato il nome. Sono stati spazzati via, come sempre accade con i bigotti di ogni confessione che non agiscono, ma si limitano a criticare dal loro scranno di autoproclamata verginità.
Ai tempi non si usava ancora il termine con cui si baloccano oggi certe conventicole, “atlantista”, anche perché gli Usa, benché già intervenuti nella Grande Guerra, apparivano erroneamente lontani e inoffensivi, ma sicuramente sarà esistita una parola totemica da scagliare contro chiunque, nell’atto di fare la storia, si sporcasse le mani con la prosaicità dei rapporti di potere vigenti. Ma, appunto, c’è chi fa la storia e chi no. Quel giorno, a Milano, la fecero. C’era un’accozzaglia, in quella sala: cinque ebrei, nove donne (che, per l’epoca e per l’ambiente, non erano poche), socialisti più o meno ex, nazionalisti, uomini d’ordine, scapigliati, monarchici, repubblicani… Le tante verghe del fascio, appunto. Non basta, del resto, mettere insieme tante cose diverse per avere un fascio. Serve una scure in mezzo. Serve l’azione, la decisione, la volontà, la tensione verso un ordine e una sintesi superiore. Fasci, sì, ma di combattimento. Nel senso che venivano dal combattimento delle trincee e andavano a combattere in un’altra trincea, quella della rivoluzione.
Se metti insieme un ex dipietrista, un ex radicale, un ex missino e un ex democristiano non avrai alcun fascio, ma solo un’accolita di tromboni riciclati. E se bussi alla porta di un massone al di fuori di quel clima eroico, di quella fede ardente, di quella volontà politica cristallina, di quella spinta avanguardista hai molte più probabilità di essere usato che di usare chicchessia. Insomma, la ricorrenza del 23 marzo ci ricorda molto più ciò che noi, intesi come “ambiente” in senso generico, abbiamo smarrito ciò che abbiamo conservato. È il positivo di cui oggi circolano per lo più negativi sbiaditi. È, quindi, un impegno per agire e non una ricorrenza a cui brindare, ebbri del nostro narcisismo, della nostra mediocrità, dei nostri tabù.
Adriano Scianca
5 comments
Cosa significa “abbiamo smarrito che ciò che abbiamo conservato”?
“la ricorrenza del 23 marzo ci ricorda molto più ciò che noi, intesi come “ambiente” in senso generico, abbiamo smarrito che ciò che abbiamo conservato”
….”scansato il masso restano i vermi!”. Proprio quelli che ci troviamo nei posti di comando.
…”scansato il masso restano i vermi”, quelli che ora ci ritroviamo a governare l’Italia. Si è perso lo spirito di Nazione di Patria come entità viva fatta da persone disposte a dare prima che a ricevere,in nome di un bene comune. Ma forse non tutto è perduto. Ottimo articolo.
a girar per milano ed a veder i milanesi d’oggi vien ribrezzo pensando a san sepolcro….
un’inutile accozzaglia di follia e disperazione….