Ankara, 6 ott – Nello scorso fine settimana lo sconfinamento di un jet da guerra russo nello spazio aereo turco, attribuito in un comunicato del ministero della difesa di Mosca a “condizioni meteo avverse” e respingendo “ogni teoria cospirazionista”, ha provocato un fuoco di fila di reazioni rabbiose prima da parte della stessa Turchia, che ha spedito due F-16 a intercettare e scortare il caccia russo fino all’uscita dallo spazio aereo nazionale nella regione di Yayladagi, provincia meridionale di Hatay, lungo la frontiera con la Siria, quindi anche da parte della Nato di cui è membro da decenni lo stesso paese euro-asiatico.
Il governo turco ha infatti convocato l’ambasciatore russo ad Ankara per trasmettergli la sua energica protesta, chiedendo poi alla Russia che “eviti il ripetersi di un simile incidente” e comunicandogli che lo riterrà “responsabile di qualunque episodio spiacevole che possa accadere”.
Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, da parte sua ha definito “inaccettabile” la violazione, convocando una riunione d’emergenza dei membri dell’Alleanza per discutere la situazione, mentre fonti Usa hanno espresso il timore che lo sconfinamento sia stato deliberato. Il segretario di Stato Usa, John Kerry, ha osservato che il caccia russo poteva essere abbattuto, con conseguenze imprevedibili. Per il capo del Pentagono, Ashton Carter, la Russia sta seguendo “una strategia perdente” in Siria e avrebbe creato un’escalation della guerra civile.
Il premier turco, Ahmed Davutoglu, ha quindi avvertito che attiverà le sue regole di ingaggio se il suo spazio aereo verrà nuovamente violato: “Le nostre regole di ingaggio sono chiare per tutti, senza distinzioni”, ha aggiunto il premier e ha spiegato che le forze armate turche hanno ricevuto l’ordine di intercettare “anche un uccello”. Salvo infine smorzare i toni definendo la Russia un “vicino” con il quale la convivenza è sempre stata pacifica e le relazioni amichevoli.
Anni luce sembrano lontani tuttavia i tempi in cui i presidenti russo e turco, Putin ed Erdogan, facevano bella mostra dei reciproci accordi per la costruzione del nuovo gasdotto in sostituzione del defunto South Stream, quel Turkish Stream che avrebbe dovuto portare in Europa gli stessi 63 miliardi di metri cubi all’anno di gas naturale russo attraversando Turchia, Grecia e Balcani. Eppure sono passati soltanto pochi mesi.
Nel frattempo, mentre i bombardamenti delle postazioni dell’Isis e degli altri gruppi terroristici continuano senza soste e apparentemente con risultati efficaci – due altri pesantissimi elementi sono intervenuti a scaldare gli animi.
Il primo – la minaccia di blocco navale delle coste siriane da parte del Cremlino.
Il capo della commissione difesa del parlamento russo (“Duma”), Vladimir Komoyedov, già comandate della flotta del Mar Nero, ha avvertito che la stessa flotta potrebbe essere utilizzata per bloccare le coste siriane e consegnare armamenti, nonché per effettuare bombardamenti d’artiglieria: “Credo che [il blocco navale] sia del tutto possibile… le navi sono pronte, ma non è ancora stato deciso. I terroristi sono localizzati troppo all’interno, dove l’artiglieria non può raggiungerli”, ha dichiarato Komoyedov.
Il secondo elemento – la prospettiva di una campagna di terra sostenuta direttamente dalle forze russe.
Nei giorni scorsi, fonti del governo siriano hanno sostenuto che la campagna aerea non sarebbe sufficiente a sconfiggere definitivamente i terroristi, implicitamente auspicando un maggiore impegno sul terreno della coalizione internazionale formata dalla stessa Siria insieme a Iraq, Iran e Russia. La realtà o meno di tale imminente impegno sul terreno è per altro ormai quasi inessenziale, dal momento che l’amministrazione americana lo assume come dato di fatto. Come riportato dalla Cnn, “La Russia ha spostato grandi quantità di armamenti da combattimento terrestre e truppe nell’area per potenzialmente sostenere sul campo le forze regolari siriane nei piani di attacco alle forze anti-regime, secondo due alti ufficiali della difesa Usa”. A questi armamenti si aggiungerebbero, secondo le stesse fonti d’oltreoceano, sistemi avanzati per la guerra elettronica e le comunicazioni, che potrebbero interferire anche con aerei di altri paesi, impedendone di fatto il sorvolo del territorio siriano.
Nello stesso tempo, il presidente americano Obama ha autorizzato una nuova fase di sostegno al cosiddetto “esercito libero siriano”, cioè ai ribelli presuntamente moderati, sia con mezzi che con consiglieri militari.
In teoria, quindi, anche grazie agli automatismi dell’alleanza atlantica, potremmo essere a un passo (sbagliato) o anche a un incidente artefatto (false flag) dal primo scontro diretto – per mare, in aria o sul terreno – tra forze armate russe da una parte e americane o Nato dall’altra, con conseguenze ovviamente imprevedibili.
Per ricostruire il puzzle all’origine dell’escalation della tensione, che è poi lo stesso all’origine della carneficina siriana, occorre ricordare la posta in gioco, già illustrata recentemente su queste colonne: è tutta una questione di gasdotti. Con interessi talmente vitali in gioco che la bilancia – che oggi pende decisamente a favore della Russia e dell’Iran – non può affatto considerarsi assestata.
In altre parole, la Turchia, la Nato e gli stessi Usa, insieme a Qatar e Arabia Saudita, hanno tutti i motivi, dal loro punto di vista, per spingersi ancora molto avanti fino al rischio estremo.
Rimandando alla precedente analisi per un quadro generale della situazione, che vede in competizione da una parte il gasdotto Qatar-Turchia attraverso la Siria e dall’altra il “gasdotto islamico” dall’Iran alla stessa Siria, approfondiamo più in dettaglio la ragione per cui se venisse meno il progetto qatariota le conseguenze sarebbero disastrose anche per la Turchia, con un rischio estremo per la stessa tenuta della Nato, oltre che come già spiegato a suo tempo per il Qatar, l’Arabia Saudita e gli stessi Stati Uniti.
Per prima cosa, la Turchia versa in condizioni economiche sensibilmente peggiori rispetto soltanto a un anno fa, con la valuta (la “Lira” turca) pesantemente svalutata e un forte deterioramento delle attività produttive e dell’export, conseguenze anche dell’instabilità politica interna.
La prospettiva, per Ankara, di ospitare migliaia di chilometri di gasdotti significherebbe trasformarsi in un formidabile hub del gas che, tradotto, comporta molti miliardi di dollari all’anno (forse tra 10 e 20) di diritti di transito. Di che salvare, letteralmente, l’economia di un paese di 85 milioni di persone.
Esiste già un gasdotto che dall’Azerbaijan raggiunge Erzurum, in Turchia, attraverso la Georgia, il cui naturale sviluppo sarebbe l’ulteriore gasdotto “Nabucco”, fortemente sostenuto dall’occidente e in particolare dagli Usa, che da Erzurum dovrebbe attraversare la penisola anatolica per dirigersi verso l’Europa centrale. Il problema è che il gas fornito dall’Azerbaijan è semplicemente troppo poco per giustificare un’opera tanto impegnativa e costosa: appena sette miliardi di metri cubi all’anno, poco più di un decimo rispetto al gasdotto proposto dalla Russia.
Un ulteriore importante apporto può però provenire dal Turkmenistan, le cui esportazioni ammontano a circa 60 miliardi di metri cubi all’anno, ma dovrebbe essere realizzato il difficile e costoso gasdotto “trans-Caspico” sul fondo del mare che divide il paese asiatico dall’Azerbaijan.
Anche in questo caso, tuttavia, non solo la (scarsa) capacità di Baku, ma anche l’intera capacità del Turkmenistan dovrebbe essere asservita al progettato Nabucco per rendere l’intero complesso di infrastrutture economicamente sostenibile, sperando inoltre che le capacità produttive dei due fornitori non diminuiscano per almeno un ventennio, cosa che è tutta da dimostrare. A queste condizioni, chi si assumerebbe il rischio?
La situazione cambia completamente allorché si prendano in considerazione i potenziali apporti del Qatar e dell’Arabia Saudita, convogliati lungo il progettato gasdotto Qatar-Turchia: 125 miliardi di metri cubi annui già esportati dal solo Qatar, a fronte di una produzione complessiva dei due paesi che supera i 250 miliardi di metri cubi annui, superiore rispetto alle esportazioni russe (ma non alla produzione, che è circa tripla rispetto alle esportazioni).
Con una potenzialità fino a quasi 200 miliardi di metri cubi annui, pari a un controvalore intorno agli 80 miliardi di dollari l’anno (1600 miliardi di dollari in 20 anni), e opere di costruzione per centinaia di miliardi di dollari, è abbastanza chiara la portata vitale degli interessi in gioco, non solo per gli Stati ma anche per un buon numero di grandi compagnie private e pubbliche. Interessi che, purtroppo, potrebbero anche valere il rischio di una guerra allargata dalle conseguenze inimmaginabili.
Francesco Meneguzzo