Roma, 16 mag – Negli ultimi tempi si fa un gran parlare di scuola, anzi della cosiddetta “buona scuola” di Matteo Renzi, che, a dispetto della pretenziosa definizione, altro non rappresenta se non l’ultimo colpo di scure alla già disastrata situazione scolastica e universitaria italiana.
Non a caso si sono potuti apprezzare recentemente interventi che mettono in risalto le contraddizioni dell’artificio renziano, rievocando invece alla memoria gli indiscutibili meriti della Riforma Gentile. L’architettura di questa riforma, malgrado le “picconate” inferte nel dopoguerra da ministri d’ogni colore e confessione, per fortuna tiene ancora botta, continuando a formare quelli che sono tra i migliori studenti d’Europa, se non del pianeta. Non è infatti un caso che i nostri giovani laureati, in virtù delle loro indiscutibili capacità e della loro eccellente cultura, siano richiesti dalle istituzioni di mezzo mondo, tanto da causare la famigerata “fuga dei cervelli”.
Ad ogni modo, non credo si sia ancora ben compreso, al di là dell’impalcatura organizzativa (pur meritevole del massimo interesse), il genuino spirito informatore della Riforma Gentile.
Bisogna dunque partire da due dati fondamentali: 1) la scuola di Gentile voleva essere e fu la scuola della vita, di una cultura che fosse dinamica vita spirituale, mentre la scuola odierna concepisce la cultura sotto forma museale; 2) la scuola di Renzi vuole distribuire nozioni e istruire tecnici senz’anima, la scuola gentiliana voleva invece educare uomini e forgiare caratteri. Se non si colgono questi aspetti, della Riforma Gentile e della crisi attuale non si capirà mai nulla.
Del resto non poteva essere altrimenti: la scuola di Renzi vuole importare in Italia il modello anglosassone, cioè aziendale, ultra-specialistico e utilitaristico, laddove Gentile si ispirava all’ideale incarnato dai grandi pedagoghi dell’Umanesimo italiano. Renzi vuole manager automatizzati, Gentile voleva al contrario cittadini consapevoli del loro valore e del loro destino. Si tratta dunque di uno spartiacque di civiltà. Proprio perché la scuola è (o, almeno, dovrebbe essere) la fucina delle generazioni di domani.
Si profila dunque una distinzione fondamentale tra istruzione (liberal-renziana) ed educazione (gentiliana e idealista). Ovverosia tra un modello di scuola che si limita a riempire teste e a distribuire nozioni e, di contro, un ideale di insegnamento volto, come detto, a formare uomini e a forgiare caratteri. Lo aveva ben capito l’umanista Montaigne: “Mieux vaut une tête bien faite qu’une tête bien pleine”, cioè “è meglio una testa ben formata che una testa solamente piena”.
Di qui, peraltro, la differenza tra erudizione e cultura, tra sapere meccanico e sapere organico: l’ideale gentiliano è un ideale di cultura che è intesa come formazione, come educazione nel senso etimologico del termine, cioè dal latino e-duco, “condurre fuori”. Il che significa suscitare ed alimentare energie, accompagnare lo studente fuori dagli angusti confini del sapere preconfezionato (il manuale o il monologo del docente) verso una superiore consapevolezza delle proprie qualità intellettuali. Da tutto ciò deriva, pertanto, l’alto valore etico e la dimensione per così dire eroica e trasfigurante della pedagogia gentiliana. Una cultura, cioè, che diviene costruzione di sé stessi, auto-formazione etica (e perciò politica), dovere e gioia. La scuola dei cittadini di una comunità organica di destino, dunque, contro la scuola degli automi e dei boy scout.
Alcune avvertenze sono però d’obbligo: si accusa spesso la scuola gentiliana di essere “autoritaria” e “difficile”. L’autorità o, meglio, l’autorevolezza del maestro era effettivamente un cardine fondamentale di quella scuola: e non poteva essere altrimenti visto che i professori avevano il delicatissimo compito di educare i cittadini di domani, invece di essere gli amiconi sessantottini di ogni somaro “che va capito” e d’ogni scanzafatiche protetto e coccolato da mamme ultra-apprensive e castranti.
Eppure il maestro non era affatto il tiranno che bacchettava le mani e scudisciava i deretani dei poveri studenti neghittosi (pratica del resto molto più gesuita che non gentiliana). Il professore ideale di Gentile era invece quel maestro che sapeva porsi in rapporto dialettico con i discenti: doveva cioè essere al contempo docente e discepolo, suscitatore di energie intellettuali e ricettore di vita spirituale. Per la riforma gentiliana era quindi necessario riaccendere nella scuola la fede nelle forze spontanee dello spirito, e di assegnare di nuovo ad essa come fine non già l’enciclopedia o l’immediata utilità, bensì la formazione della personalità del discente. Occorreva dunque riaffiatare la scuola con la vita, della quale doveva essere prosecuzione e consapevole approfondimento, non già negazione.
E arriviamo al secondo punto: la scuola gentiliana era “difficile”? Sì, lo era, e a buon ragione! Formazione e selezione, infatti, vanno di pari passo. Meglio formare e mandare avanti pochi studenti capaci e volenterosi che, attraverso una scuola “facile”, creare un esercito spropositato di diplomati e laureati, la cui maggior parte non potrà che affollare ineluttabilmente le schiere del cosiddetto “proletariato intellettuale”. Per i non adatti agli studi superiori, infatti, saranno sempre meglio qualificate scuole di tirocinio lavorativo per imparare quei mestieri degnissimi che qualche idiota continua a qualificare come “lavori che gli italiani non vogliono più fare”. E questo sarà comunque sempre meglio di ulteriori cinque di anni di sbadigli, “seghe” e tremori pre-esami in cui, come recita una famosa canzone, “tuo padre sembra Dante e tuo fratello Ariosto”.
L’ultima obiezione corrente alla scuola gentiliana è la più pericolosa: questa scuola era troppo “umanistica”, si dice, cioè fondata sugli studi umanistici (la letteratura, la storia, la poesia, la filosofia). È vero che il pregiudizio – tutto liberale, borghese e progressista – degli studi umanistici come “vero” sapere contrapposto ai mestieri manuali da “vile plebaglia” è quanto di più turpe e razzista si possa concepire. Eppure è da affermare con forza che l’umanesimo di Gentile non era quello di Umberto Eco, Barbara Spinelli e Selvaggia Lucarelli, la quale ha recentemente sostenuto su facebook di “aver studiato proprio per non dover fare l’operaia”. No, signori, la cultura, per Giovanni Gentile, non è affatto un’arma raffinata da sfoderare nelle discussioni da salotto, né abbellimento retorico o consolazione dell’anima. Tutt’al contrario, la cultura ha ragione di esistere solo e nella misura in cui serve a “coltivare” sé stessi, a plasmare il proprio carattere, a orientare il proprio destino e a partecipare dello stesso “sentimento del mondo” della propria comunità nazionale.
D’altra parte la scuola renziana sotto quest’aspetto è schizofrenica: la cultura umanistica è, per un verso, la torre d’avorio degli intellettualoidi da talk show buonisti e, per un altro, un’anticaglia da sacrificare sull’altare delle scienze naturali, tecniche, “utili”. Ma – si badi bene – qui non si tratta di resuscitare la vecchia questione, peraltro mal posta, se sia preferibile la cultura umanistica o la cultura scientifica, se sia più “utile” l’esprit de géométrie o l’esprit de finesse. Non è questo il punto: il punto, semmai, è che Gentile aveva perfettamente capito che la letteratura, la filosofia, la storia, ecc. devono essere, nelle scuole di ogni ordine e grado (senza distinzioni razziste di classe), la fonte della coscienza civile delle giovani generazioni.
Accantonando il sapere umanistico non si fa che distruggere il patrimonio culturale di un popolo, il quale si è formato lungo i secoli nel pensiero e nella passione dei grandi poeti, scienziati, filosofi e condottieri dell’Italia antica, medievale, rinascimentale e risorgimentale. La “buona scuola” di Renzi altro non rappresenta che l’annientamento del nostro patrimonio memoriale. E un popolo senza storia è un popolo senza futuro. Una nazione senza origine è una nazione senza destino. Un destino che oggi, grazie agli insegnamenti di un gigante come Giovanni Gentile, abbiamo il diritto e soprattutto il dovere di riprenderci.
Valerio Benedetti
2 comments
Bell’articolo, grazie. Non credo purtroppo sia più possibile riproporre una riforma gentiliana.
Il capitalismo e l’economia sovrastano gli ideali di umanesimo e spiritualità che contraddistinguevano la nostra nazione nei tempi che furono.Oggigiorno sono ben altri gli interessi dei giovani.
Quello attuale è solo un “vento culturale” destinato a finire. La scuola non dovrebbe andare a ruota della società o seguire i gusti dei giovani, è quello l’errore, sono trascorsi quasi 60 anni dalle disastrose riforme del 68′, è ora di voltare pagina.