Roma, 18 apr – Identità. Una parola discussa, demonizzata, incompresa, eppure sempre più al centro del dibattito politico dei nostri giorni. Sulla definizione di questo concetto, d’altro canto, si deciderà il futuro stesso dei popoli europei nelle temperie della globalizzazione. L’occasione per (ri)parlare di identità arriva dal recente convegno “La rivincita delle identità” tenutosi il 13 aprile alla Camera dei Deputati, organizzato dal Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli, il quale sta avendo il merito di accendere i riflettori su temi non allineati al pensiero unico “politicamente corretto” in contesti istituzionali.
Il professor Alessandro Campi (Università di Perugia) nel suo intervento ha non a caso criticato la voga culturale secondo cui le nazioni non esistono, affermando che se la nazione è costruita non significa che sia artificiosa. Al contrario, la costruzione nazionale si basa sul sedimentarsi di miti e memorie comuni, che potrebbero ancora essere utili nell’ottica di una lotta metapolitica per la ridefinizione delle categorie che descrivano il presente, così da non lasciare l’egemonia culturale ai “nemici delle nazioni”.
Diego Fusaro si è a sua volta scagliato contro il pensiero unico che delegittima le posizioni eterodosse identificandole con la loro degenerazione parossistica: perciò chi parla di “identità” è sempre individuato come “identitarista”, chi parla di “nazioni” come “nazionalista”. A suo avviso il globalitarismo (termine già usato da Marcello Veneziani) è un’ideologia totalitaria che unisce una struttura economica di destra e una sovrastruttura dei costumi di sinistra. Il capitale globalitario ha bisogno che non esistano limiti e barriere alla sua azione e come tale è ostile ai confini nazionali. I capitali devono potersi muovere liberamente per cercare il lavoro a basso costo, e i lavoratori del Terzo Mondo venire nel Primo per abbassarvi il costo del lavoro. In tal senso la globalizzazione è anche “glebalizzazione”, livellamento degli standard di vita verso il basso per gran parte della popolazione mondiale, a vantaggio di una ristretta élite di aristocratici della finanza.
Dario Citati si è concentrato invece nella critica alla costruzione dell’Unione Europea, che ignora il principio per cui una costituzione può derivare solo da un popolo pre-esistente. I tecnocrati dell’Ue ritengono invece di poter creare l’identità per decreto, e mirano a un’identità a-storica, un “patriottismo della costituzione” fondato esclusivamente sui diritti, in cui chiunque entri sul territorio dell’Ue possa diventare subito membro di questa società “anazionale”. In particolare secondo Citati i meccanismi d’integrazione dell’Ue sono sbagliati alla radice: l’idea del dialogo non è sostenibile nel momento in cui l’altro non è mai percepito come individuo ma come membro di una cultura, mentre la cultura europea è disprezzata, gli europei considerati solo come individui atomizzati e privi di identità. L’Europa dovrebbe riscoprire la sua identità storica e forte di essa rapportarsi coi nuovi arrivati. La via corretta è l’assimilazione, ma non alla francese (ossia un’assimilazione politica) bensì un’assimilazione culturale, in cui l’immigrato divenga per tutto e per tutto membro della sua nuova nazione.
Daniele Scalea, in chiusura, ha individuato nei successi elettorali di Brexit e Trump un’inconscio moto di ribellione in Occidente contro deindustrializzazione, immigrazione di massa e censura del politicamente corretto – i sintomi del vero male, ossia il nichilismo che è istinto di auto-estinzione dell’Occidente. L’attacco dall’interno si accompagna alla pressione dall’esterno dell’immigrazione di massa. Venuto meno il modello degli Stati-nazione omogenei, non si è ancora affermato un nuovo modello davvero funzionale. Il melting pot si è rivelato impraticabile perché le identità particolari delle comunità immigrate si è persino accresciuta. Il multiculturalismo, ossia la convivenza tra diverse comunità entro la medesima società, sta palesando i suoi limiti sotto forma di terrorismo, xenofobia, no-go zones, rivolte nelle banlieau ecc. Quindi, partire dal riconoscimento dell’irrinunciabile necessità dell’uomo di identità, familiarità e confini, in luogo della feroce negazione attuata dalle elites occidentali, sarebbe la scelta politica più saggia.
Gli spunti di riflessioni sopra elencati ci portano ad alcune considerazioni. La ribellione “epidermica” delle masse popolari testimoniata dai successi dei cosiddetti “populismi” necessita di serietà, disponibilità al confronto e progettualità di alto livello, pena il rimaner fermi alla sterile critica e all’incapacità di adeguarsi a una realtà in continuo mutamento. Difesa dell’identità non significa esclusivamente costruire muri ma rispettare le differenze e le specificità dei popoli, oltre che la loro storia. L’individualismo liberale, l’accoglienza cieca, l’odio per la propria identità della sinistra no borders, l’omologazione “diritto umanista” dei cosmopoliti che ha spianato la strada alla finanziarizzazione dell’esistenza (si rilegga Luciano Gallino in proposito) possono essere combattuti solo con un bagaglio culturale di cui gli interventi sopra descritti appaiono come esempi “necessari”. Accanto a questi, vengono in mente L’Identità Sacra di Adriano Scianca, l’Elogio delle differenze di Giovanni Damiano, la riscoperta dell’identità italiana (quale scelta, programma, sacrificio, missione continua) “attraverso” Giovanni Gentile operata da Valerio Benedetti fino alla critica delle elites cosmopolite di Christopher Lasch e Guillaume Faye, che già negli anni Ottanta denunciò il “Sistema per uccidere i popoli”. Il suo monito appare ancora attuale: «Un popolo scompare più spesso per dismissione che per distruzione. I fattori di distruzione sono superati da un popolo che vuole, nel profondo della sua anima, perpetuarsi biologicamente e culturalmente. Ora, il Sistema non uccide i popoli assegnando loro prove insormontabili, guerre, stermini, carestie, epidemie, ma rodendo dall’interno il loro voler vivere, sradicandoli dall’humus della loro cultura, scoraggiando ogni loro volontà di costruirsi un avvenire».
Agostino Nasti