Lucca, 26 feb – È morto ieri Antonio Monselesan. Aveva 74 anni, vissuti da romanzo, in luoghi e con ruoli differenti: pugile prima, allenatore di pugilato poi, maestro d’armi, regista, sceneggiatore, coreografo, attore. Quanto ai luoghi, Antonio inizia la sua storia in Libia nel 1941, dove nasce da genitori italiani. Il padre è militare di stanza in Africa e dopo la guerra viene trasferito in Toscana, in lucchesia in particolare.
Il paese di Borgo a Mozzano dove vive, però, ad Antonio va stretto, e così lo ritroviamo a Roma, poco più che ventenne. Tira di pugilato e al fisico atletico unisce una bella faccia. Qualcuno lo nota e lo fa entrare nella macchina del cinema italiano, in quegli anni pulsante e sempre alla ricerca di visi e personaggi. Monselesan appare e scompare in ruoli marginali e comparsate. Gioca con il cinema, combatte sul ring.
I film in cui compare, seppur sullo sfondo, ci parlano di nomi illustri: Sergio Leone (Il Colosso di Rodi); Anthony Quinn, Silvana Mangano e Vittorio Gassman (Barabba); Giuliano Gemma (Maciste l’eroe più grande del mondo, Erik il vichingo); Mario Monicelli, Gian Maria Volonté, Enrico Maria Salerno, di nuovo Gassman (L’armata Brancaleone); Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (I due sergenti del generale Custer).
Poi nel 1968 arriva il passaggio in Rose rosse per il führer, con Nino Castelnuovo. È il primo film interamente diretto da Fernando Di Leo, l’“anarchico del noir” annoverato da Quentin Tarantino fra i suoi maestri. Antonio continua a tirare di boxe ma inizia a vedere nella cinepresa una possibilità, quanto meno quella di un’entrata economica. L’incontro con Alfonso Brescia gli fa fare un altro passo avanti.
Al Bradley – come si accreditava spesso Brescia – già aiuto regista di Fellini e Sergio Leone, in quegli anni è il classico regista d’assalto: sfrutta i generi in voga (polizziotteschi, western, noir) e sforna anche più film in un anno. Monselesan recita in due sue pellicole e Brescia lo convince a crederci un po’ di più.
Così il ciak successivo lo vede su un set in Spagna, al seguito di Alfonso Balcàzar. Il film è uno spaghetti western: Sartana non perdona. L’esperienza motiva ancora di più il pugile, che nel film successivo trova una parte creata apposta per lui. Antonio è a Roma, in un locale in Via Veneto. A bere. Il compagno casuale di bancone è Don Taylor, regista. Vede Monselesan, gli piace la sua figura. Taylor deve realizzare Un esercito di 5 uomini e fa spazio al giovane creando la parte di un ufficiale messicano. Il regista del film poi cambierà, ma la parte no.
In quel film c’è anche Bud Spencer, che Monselesan ritroverà insieme a Terence Hill in altri film, forse i più popolari della sua carriera: Lo chiamavano Trinità… e …continuavano a chiamarlo Trinità. Nel primo è uno dei bounty killer, nel secondo è Wild Cat Hendriks, protagonista del famoso duello pistolero con Terence Hill che finisce a schiaffi.
Come andava di moda, Antonio trova uno pseudonimo: Tony Norton. Con quel nome reciterà in diversi altri film, fra cui Tutti figli di Mammasantissima, dove compare Ornella Muti e La mano spietata della legge di Mario Gariazzo. Quest’ultima pellicola, del 1973, rappresenta una sorta di svolta mancata nella carriera di Antonio. Per produrre quel film, che si doveva chiamare inizialmente Imperativo categorico: contro il crimine con rabbia, crea insieme a Gariazzo una società, la Norma film. Monselesan deve essere finalmente il protagonista, ma le esigenze di cartellone impongono all’ultimo una produzione diversa, Philippe Leroy come protagonista e l’inserimento di Klaus Kinsky. Ad Antonio resta il ruolo del tosto Commissario D’Amico.
Finita l’esperienza nel cinema, Monselesan si dedica a quei guantoni che non hai mai appeso al chiodo e alla ristorazione. Queste due leve lo porteranno a vivere per vent’anni in Spagna, dove inizia ad allenare pugili professionisti. Poi nel 2005 è di nuovo a Lucca, e sempre dietro al pugilato, nella palestra gestita dal figlio Giulio: la Pugilistica Lucchese. È questo il set degli ultimi anni di vita di Antonio, dove ha continuato ad allenare fino a che un nemico disonesto non lo ha colpito a tradimento: l’ictus. Ma anche dopo quel colpo non è andato al tappeto, e ogni sera era nella palestra dentro lo Stadio Porta Elisa.
Aspettava i ragazzi, magari fuori in macchina, con in bocca una sigaretta e parole spesso secche come sentenze. Aforismi involontari, di un’ironia graffiante che nascondeva l’amore di Antonio per i suoi pugili. Un amore che sfuggiva alla retorica delle continue pacche sulle spalle: quelle non fanno crescere. E così Antonio recitava, senza bisogno di leggerle, le frasi del proprio copione personale. Battute non ascoltate negli anni del cinema, ma da lui vergate negli anni di vita e di lotta. Un romanzo personale scritto senza importargli che qualcuno lo leggesse. Ma in molti invece erano attenti, in primis i ragazzi che allenava, che insieme alle lezioni di pugilato imparavano lezioni di vita.
Pugile, padre di pugile, allenatore di pugili, a differenza di molti attori che sullo schermo avevano la parte del leone, Antonio era un duro, vero, fuori dal set. Forse è per questo che poteva accettare con un sorriso i sonori schiaffi finti che ha preso nei film. Ma chissà se Terence Hill si è mai accorto di quello che ha rischiato…
Simone Pellico