Roma, 30 giu – 90 miliardi di barili di petrolio, 44 miliardi di barili di condensati e la cifra astronomica di 47mila miliardi di metri cubi di gas naturale. Queste sono le stime fornite dall’USGS, il servizio geologico degli Stati Uniti, nel lontano 2008 delle riserve di idrocarburi in tutta la regione dell’Artico. Una regione climaticamente ostile che è divisa tra le nazioni rivierasche che la circondano: Canada, Stati Uniti, Russia, Norvegia e Danimarca (e marginalmente l’Islanda). Una regione che quindi sta diventando motivo di contenzioso internazionale, complice il ritiro della copertura permanente di ghiaccio, appunto per le enormi riserve di idrocarburi presenti, ma non solo. Lo scioglimento del pack ha infatti aperto il “passaggio a nord-est” per un maggior periodo dell’anno divenendo così commercialmente interessante per le rotte commerciali che dal Nord Europa devono raggiungere l’Asia e l’Estremo Oriente: la via che passa da Suez, infatti, è notevolmente più lunga, quindi il controllo di questa “nuova” rotta più breve apre interessanti scenari di sviluppo per la Russia coi suoi porti che si affacciano sul Mar Glaciale Artico.
Ma a far gola sono gli idrocarburi, ed in particolare il gas naturale. Il diritto internazionale riconosce il limite delle 200 miglia come “zona esclusiva di sfruttamento economico” ma dai primi rilievi geologici si stima che la maggior parte delle riserve artiche sia sita ben oltre questo limite. Pertanto le squadre di ricerca oceanografica sono al lavoro da un decennio per mappare il fondale oceanico dell’Artico: se infatti la Russia (o il Canada e gli Usa relativamente alla loro porzione geografica) riuscisse a dimostrare che il limite dello zoccolo continentale siberiano si estende oltre le 200 miglia potrebbe vedersi riconosciuto il diritto di sfruttamento che sino ad oggi è solo una rivendicazione diplomatica. Non si tratta un fazzoletto di terra come la Crimea, qui si sta parlando di 1.191.000 km quadrati, quasi 4 volte la superficie totale dell’Italia per intenderci, con una profondità media di 200 metri, cosa che renderebbe lo sfruttamento più agevole nonostante le condizioni climatiche fortemente avverse che richiedono precauzioni del tutto particolari. La Russia quindi guarda con molto interessa alla sua frontiera nord anche in considerazione del fatto che le sue riserve onshore di petrolio e gas stanno rapidamente esaurendosi, come affermato dalla società Polarisk attraverso le parole di Mikå Mered nell’aprile del 2016: “Se oggi fossi il governo russo e volessi continuare ad avere gas e petrolio, dovrei sviluppare la ricerca offoshore in Artico molto velocemente”. Parole che trovano conferma anche in un rapporto del Wilson Center, un gruppo di ricerca indipendente, che afferma che se la Russia vuole mantenere i livelli di produzione a 10 milioni di barili al giorno oltre il 2020 avrà sicuramente bisogno di queste nuove risorse artiche. Ed è proprio quello che Mosca sta facendo (con fatica) non solo a livello industriale (Rosneft ha stanziato 400 miliardi di dollari spalmati nei prossimi 20 anni per la ricerca in Artico), ma anche sotto il profilo militare, al netto delle sanzioni economiche e del prezzo del petrolio basso che frenano i nuovi investimenti nella “frontiera nord”.
La Russia quindi sta trattando i suoi sterminati confini con il Mar Glaciale Artico come una qualsiasi nazione sovrana dovrebbe fare: militarizzandoli. La presenza militare nell’area settentrionale della Siberia negli ultimi anni è andata progressivamente aumentando dopo il quasi ventennale abbandono post Guerra Fredda. La “nuova Dottrina Navale della Federazione Russa”, risalente al 2010 ma aggiornata nel 2015, ha previsto infatti la creazione di un comando interforze per l’Artico: al momento questo comando dispone di 2 brigate motorizzate (la 200° e la 80° dislocate a Pechenga e Alakurtii) che sono appunto adibite al supporto delle attività di ricerca che i russi stanno effettuando nell’area e soprattutto con funzione di protezione degli interessi di Mosca. A queste due brigate di fanteria, i cui elementi però provengono dagli Specnaz, si aggiungono varie unità aeree e sistemi di difesa AA basati a terra che, unitamente alle unità navali della Flotta del Nord, attivano una “bolla” A2/AD quasi pari a quelle viste in Siria, Crimea o Kaliningrad. Oltre a questo, ovviamente, c’è stata una implementazione dei sistemi di sorveglianza, monitoraggio, tracciamento dei bersagli a medio, lungo e lunghissimo raggio. Tutte queste unità sono poste sotto il nuovo comando interforze creato a Severomorsk che ha assorbito interamente le funzioni di comando della Flotta del Nord e della 1° Divisione Difesa Aerea.
Da questo comando dipende quindi il totale controllo delle attività militari e di ricerca nella zona dell’Artico. In dettaglio dispone di: 120 velivoli tra ala fissa e rotante suddivisi in 6 reggimenti e uno Squadrone (dotati di Su-33, Su-25, Mig-29K, Mig-31, Su-24, Tu-22M più vari elicotteri e aerei da trasporto), 4 reggimenti missilistici antiaerei (tutti dotati dei moderni sistemi S-400 Triumf), 4 reggimenti EW/SIGINT, la totalità del naviglio in forza alla Flotta del Nord, la più importante della Russia (41 sommergibili e due divisioni di navi di superficie con comando a Poljarniy). Ovviamente questo nuovo dispiegamento di forze ha creato investimenti in infrastrutture; la Russia infatti negli ultimi 4 anni ha svolto enormi interventi per la creazione di nuove strutture e per il ripristino di quelle vecchie. Oltre alla riattivazione di 13 piste che diverranno operative entro il 2018 sono state costruite nuove infrastrutture per permettere la presenza costante, a rotazione, delle truppe della Task Force Artica divisa tra il Mar di Barents, quello di Kara e di Laptev, oltre a tutta una serie di installazioni minori che corrono da Murmansk sino alle Curili. I centri nevralgici però sono siti nelle isole della Novaya Zemlja, Kotelny e Zemlja Aleksandry dove è stato costruito il nuovo complesso chiamato “Trifoglio Artico” in grado di accogliere 150 uomini in modo permanente e con una nuovissima pista di atterraggio già divenuta operativa che vedrà anche arrivare il sistema S-300 a integrazione del già presente sistema a corto raggio Pantsir-S1. Sull’isola di Kotelny invece è sito il complesso “Severny Klever” in grado di ospitare 250 uomini e sede dalla Task Force Artica, anche questo dotato di pista di atterraggio e sistemi di difesa AA come quelli presenti a Zemlja Aleksandry. Le due brigate artiche (9mila uomini) hanno in dotazione, oltre a vari mezzi cingolati tipo MT-LB/B, un totale di 71 carri tra T-72B3 e T-80 oltre a vari veicoli su ruota tipo BTR-80 e, ovviamente, agli eccellenti sistemi antiaerei tipo ZSU-23.
Il messaggio di Mosca è quindi chiaro: l’Artico rappresenta una risorsa fondamentale per la sopravvivenza della Russia, come abbiamo visto, pertanto il Cremlino non è disposto a cedere sulle rivendicazioni territoriali in quell’area, e lo schieramento di forze degli ultimi anni, che non si vedeva dai tempi della Guerra Fredda, è lì a dimostrarlo. Usa e Canada sono avvisati.
Paolo Mauri
1 commento
[…] Altro fronte molto caldo è l’Artico, dove la Russia gioca una partita decisiva per il proprio futuro. In questo rimescolamento di alleanze e sviluppo di progetti petroliferi gioca un ruolo anche il gruppo ENI. http://www.green.it/eni-trump-e-le-trivellazioni-nellartico/ […]