Tripoli, 17 feb – Prima vennero i caccia di Sarkozy, poi l’Isis di Al-Baghdadi, e il risultato per l’economia italiana volge sempre e soltanto al peggio. A partire dalla forte presenza dell’Eni in Libia, paese dove il gigante degli idrocarburi controllato dallo Stato italiano coltiva estrazioni di petrolio e gas in sei grandi aree in concessione e che trasporta il gas naturale attraverso il grande gasdotto sottomarino Greenstream che dalla Libia giunge a Gela in Sicilia.
Prima della caduta di Gheddafi, la Libia produceva 1,6 milioni di barili al giorno, il 2% del totale mondiale, mentre oggi in media la produzione è appena un quarto rispetto al suo potenziale e particolarmente incostante e inaffidabile tanto che – notizia dell’ultima ora – la compagnia petrolifera di stato libica ha appena dichiarato che se gli attacchi dell’Isis continueranno, come quello che recentemente ha coinvolto la francese Total (quando si dice ironia della sorte), bloccherà tutte le operazioni di estrazione. Nel frattempo, anche sull’onda delle notizie dalla Libia, il prezzo del petrolio di riferimento europeo “Brent” è già risalito fino oltre 57 dollari al barile dal minimo di 46 dollari di gennaio scorso, mettendo a rischio la già fragile ripresa osservata in Europa (ma non in Italia).
A partire dall’agosto scorso, a parte l’Eni stessa, tutte le altre imprese e attività italiane in Libia sono praticamente ferme. Gli appalti di regime delle opere pubbliche (autostrade, scuole, ospedali), concordati tra Muammar Gheddafi e il governo Berlusconi, non sono mai partiti. Dopo il 2011, centinaia di piccole e medie imprese erano pronte a lanciarsi nella ricostruzione, anche a Bengasi e Misurata, perché, spiegavano alla Camera di commercio italo-libica, “le aziende disposte a investire erano molte più del centinaio presente prima della caduta di Gheddafi”. Almeno il triplo, alle fiere e agli eventi commerciali. E già nel settembre scorso la stessa Camera di commercio denunciava la posizione defilata del governo italiano: “Bisognava e bisogna agire prima che la situazione sia irrecuperabile. Invece negli ultimi mesi la Farnesina non si è esposta. La politica italiana è ferma. Gli altri si muovono eccome per i loro interessi. Noi, che partivamo avvantaggiati, perdiamo terreno”.
Ancora nell’aprile del 2014, in una capitale sotto coprifuoco, più di 650 società nazionali e internazionali partecipavano alla 42esima Fiera internazionale di Tripoli, con un drappello di oltre 300 alte personalità, libiche e straniere, a presenziare la cerimonia di apertura. La nuova Libia si dichiarava in pista per iscriversi all’Expo 2015 di Milano e 55 aziende italiane si registravano alla fiera internazionale sull’edilizia di Tripoli di maggio 2014, la Libya Build, in concorrenza con altre 700 imprese, la metà delle quali straniere. I connazionali con meno protezioni, comunque, vista l’aria che tirava, avevano scelto il disimpegno mesi prima, nonostante gli ex ribelli al potere fossero decisi a mantenere relazioni privilegiate con Roma: un esempio per tutti, la maxi commessa dell’Enav (Ente nazionale per l’Aviazione civile) da 1 milione di euro del settembre 2012, per formare 140 controllori del traffico aereo negli scali libici poi assaltati.
Per i grandi gruppi che con Gheddafi vincevano appalti di Stato è più facile mantenere una presenza sul territorio, ma “anche queste opere strutturali e infrastrutturali sono naufragate”, spiegava Arduino Paniccia, direttore della Scuola di competizione economica internazionale di Venezia e presidente della rete di investitori in Libia. “Nel caos è pure finita nel dimenticatoio la risoluzione del contenzioso Italia-Libia. Peccato, perché la terra è promettente per gli investimenti. Ma la cosa peggiore, al momento, è appunto che il Paese è precipitato in un caos del quale non si vede la fine”. Gli stessi tecnici dell’italiana Bonatti, leader internazionale nella costruzione di gasdotti e cantieri ingegneristici, si sono visti costretti nei mesi scorsi a lasciare la capitale e il paese africano.
Così come la Salini-Impregilo (gruppo Fiat), nel 2013 aggiudicataria (come da accordi del 2009) della maxi commessa dell’autostrada costiera (400 chilometri per una forza lavoro di 2 mila persone e un valore di 963 milioni di euro), confermava nell’autunno scorso che “al momento è tutto fermo”.
Un simbolo della tragedia libica è la cosiddetta “autostrada dell’amicizia”, lunga 1700 chilometri dal confine della Libia con l’Egitto a quello con la Tunisia, che avrebbe richiesto vent’anni di lavoro e un investimento di tre miliardi di dollari, la cui costruzione era riservata a imprese italiane e che rappresentava la maggior realizzazione in quel piano di cinque miliardi di dollari con cui, nel 2008, il governo Berlusconi aveva chiuso la vertenza con la Libia di Gheddafi per i danni di guerra causati dall’occupazione italiana.
Per di più, nell’accordo con Gheddafi era inclusa la collaborazione alla lotta contro l’immigrazione clandestina: anche sotto questo profilo, la gloriosa rivoluzione permessa dai bombardamenti franco-anglo-americani ha portato al disastro, umano prima di tutto, ma anche economico, il cui conto salatissimo grava ogni giorno come un macigno sulle tasche degli Italiani.
Resisteva soltanto l’Eni, pur avendo ridotto la presenza di personale tecnico allo stretto necessario. Dopo di che, è arrivato l’Isis e tutto è precipitato.
Vediamo allora i numeri del disastro libico, che sono molto esplicativi.
Secondo i dati dell’Istituto per il commercio con l’estero (Ice), L’interscambio commerciale con la Libia al tempo di Gheddafi, correva l’anno 2010, ammontava a un totale di 15 miliardi di euro, di cui quasi tre miliardi di esportazioni e oltre 12 miliardi di importazioni, prevalentemente petrolio e gas – idrocarburi, quelli libici, di straordinaria qualità – mentre tra le voci delle esportazioni pesavano per quasi la metà i prodotti della raffinazione del petrolio, nonché per circa 800 milioni di euro macchinari e apparecchiature, autoveicoli, rimorchi e semirimorchi, prodotti alimentari. Da notare che nel 2010 il prezzo del petrolio oscillava tra 50 e 70 euro al barile.
Dopo la “primavera” libica in salsa franco-inglese del 2011, con scellerato contributo italiano, la deposizione e l’assassinio del Colonnello e il temporaneo collasso dell’interscambio, ridotto in quell’anno a meno di cinque miliardi di euro, nel 2014 l’interscambio commerciale si attestava al modesto valore di 10 miliardi di Euro, cioè oltre il 30% in meno rispetto a quattro anni prima, di cui oltre 2,3 miliardi di esportazioni e circa 7,6 miliardi di importazioni, inferiori di un miliardo rispetto ai valori del 2013, quando erano già stati persi quattro miliardi di interscambio rispetto all’anno “d’oro” 2010, diminuzione aggravata dal fatto che nel 2013 il petrolio costava in media 85 euro al barile.
È però guardando alle importazioni di idrocarburi (dati Ministero per lo sviluppo economico), e soprattutto di petrolio, che il quadro si fa decisamente fosco. Se nel 2010 venivano importati dalla Libia una media di 380 mila barili al giorno di greggio, pari al 25% delle importazioni nazionali, i rispettivi valori nel 2014 sono scesi ad appena 80 mila barili di petrolio al giorno e all’8% delle importazioni nazionali, rispettivamente, con un notevole impatto potenziale sulla sicurezza energetica italiana, mitigato soltanto dalla diminuzione del fabbisogno causato dalla perdurante crisi economica. Russia e Azerbaigian sono stati i Paesi in grado di sopperire alle mancate importazioni dalla Libia (e dall’Iran sotto embargo).
Per quanto riguarda le importazioni di gas naturale attraverso il gasdotto Greenstream con terminale a Gela, in Sicilia, queste sono passate dai 25 milioni di metri cubi al giorno nel 2010 ai 17 del 2013 e – secondo le proiezioni – ai meno di 10 milioni al giorno nel 2014, con una diminuzione del 60%. Corrispondentemente, il peso percentuale delle importazioni di gas dalla Libia è diminuito dal 13% del 2010 a meno del 7% nel 2014.
L’impatto del crollo delle importazioni di gas naturale è stato tuttavia fortemente mitigato dalla fortissima diminuzione del relativo fabbisogno nazionale, determinato in parte dalla crisi economica e in proporzione ancora maggiore dalla massiccia espansione delle fonti rinnovabili – solare fotovoltaico in primo luogo – che hanno eliminato una parte considerevole della generazione termoelettrica, la cui fonte fossile principale è proprio il gas metano.
In sintesi, una eventuale perdita completa e definitiva della Libia comporterebbe una diminuzione delle esportazioni, rispetto al periodo del regime di Gheddafi, di tre miliardi di euro all’anno, nonché del 25% delle importazioni di petrolio e del 13% di quelle di gas naturale (riferite al 2010), per un giro d’affari complessivo dell’ordine di 15 miliardi di euro all’anno, per non parlare delle infrastrutture di estrazione e trasporto degli idrocarburi, di proprietà dell’Eni o congiunte con la corrispondente azienda di stato libica, che sono praticamente inamovibili e il cui valore non è noto ma certamente molto elevato. Se aggiungiamo la perdita di tutte le commesse per opere infrastrutturali per un valore di molti miliardi di euro, e il costo del recupero e del mantenimento di folle immani di immigrati clandestini, che poi faranno ulteriori danni una volta stabilitisi sul territorio nazionale, lo scenario è tanto apocalittico quanto difficile da immaginare.
Se veramente l’Italia crede di uscire dalla crisi economica, e la domanda di idrocarburi e di lavoro per le imprese dovessero tornare a crescere, ci potremo permettere di rinunciare alla Libia? La situazione e i numeri esposti non valgono un impegno diretto, anche militare, del nostro Paese?
Francesco Meneguzzo
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[…] i fanatici jihadisti dell’Isis controllano sia in Iraq e Siria, sia infine in Libia, cruciali snodi di estrazione e trasporto di petrolio e gas che, se per il momento difficili da gestire per una massa di guerriglieri – o giustizieri – […]
[…] i fanatici jihadisti dell’Isis controllano sia in Iraq e Siria, sia infine in Libia, cruciali snodi di estrazione e trasporto di petrolio e gas che, se per il momento difficili da gestire per una massa di guerriglieri – o giustizieri – […]