Roma, 25 mar – L’ingresso di China National Chemical Corporation, altrimenti nota come ChemChina, nel capitale di Pirelli, solleva non pochi dubbi sulla tenuta del capitalismo nazionale italiano nei confronti nei concorrenti globali. L’Italia sarà in grado di resistere alle sirene cinesi?
L’operazione Pirelli non è stata la prima e nemmeno sarà l’ultima della sua specie. I casi di Mediobanca, Eni, Cdp Reti (Terna e Snam) sono i più noti, ma Pechino è abile nel diversificare e puntare -spesso in silenzio- verso strategie più di ampio respiro e lungo termine. La Cina ogni anno reinveste almeno all’estero risorse nell’ordine degli oltre 100 miliardi di dollari. L’Italia è la seconda meta europea preferita, la quinta al mondo: nel solo 2014 gli investimenti diretti nel nostro paese sono stati circa 3 miliardi. Di questi, 2.1 per l’acquisto del 35% di Cdp Reti. La disponibilità di queste risorse viene dalle riserve accumulate nel tempo, in larga parte grazie all’apertura commerciale su scala mondiale che ha permesso alle imprese occidentali le pratiche di delocalizzazione produttiva, andando alla ricerca di condizioni di lavoro peggiorative ma utili per abbattere i costi. Una pratica commerciale scorretta, ma che da parte sua è stata consentitva dalla totale assenza di una qualsiasi forma di politica doganale che potesse contrastarla. Così, i miliardi di cui la Cina dispone non sono altro che -in buona parte- risorse trasferite da quella stessa parte di mondo che ora sta finendo nel suo mirino.
Non si tratta, tuttavia, di una mera questione finanziaria. Pechino non ha, vale a dire, interesse ad investire nell’ottica di ottenere una rendita, come fosse un socio qualunque. Il caso di Pirelli è emblematico: nonostante la sede e il centro di ricerca rimarranno in Italia, come previsto dall’accordo, ChemChina otterrà significative concessioni in termini di governance, nominando sì un numero di consiglieri di amministrazione pari a quelli nominati dai soci italiani, ma garantendosi la scelta del presidente del Cda che, in caso di parità fra voti a favore e contrari su una determinata decisione, potrà esprimere un voto doppio, superando così eventuali scoglio. Analogo discorso -sia pur senza maggioranza- vale anche per Snam e Terna, nelle quali State Grid Corporation of China ha già provveduto all’indicazione dei consiglieri da collocare.
La strategia cinese è quindi tutt’altro che finanziaria ma, al contrario, prettamente industriale. Nonostante i recordo sulle richieste di brevetti, fra Shanghai e Guangzhou hanno bisogno, per sostenere una crescita sempre vicina alle due cifre (in media il 10% l’anno negli ultimi tre decenni), di continuare ad acquisire tecnologie e competenze. E dove farlo, se non in realtà centenarie che hanno nel tempo accumulato un bagaglio di conoscenze, malizie e capacità applicative? Ecco allora l’ingresso in AnsaldoEnergia, ecco l’acquisto delle quote di Ferretti (nautica), ecco le numerosissime operazioni condotte con con le piccole e medie imprese, sconosciute ai più, ma sulle quali le banche del fu Celeste Impero hanno ricevuto l’ordine dal governo di sostenere acquisizioni o joint venture, spesso non paritetiche.
Ed è proprio il ruolo politico a fungere da volano per la marcia “commerciale” di Pechino verso l’estero. State Grid Corporation, ChemChina, People’s Bank of China -i principali protagonisti dello shopping in Italia- hanno tutti un elemento in comune: sono di proprietà pubblica. Tramite questo controllo diretto il governo si garantisce l’utilizzo di importanti leve al fine del perseguimento dei suoi scopi di politica economica ed estera. Una strada che l’Italia e l’Europa hanno abbandonato da almeno un quarto di secolo, senza essere in grado di costruire modelli alternativi di sviluppo. E che ci sta sempre più esponendo alla colonizzazione industriale.
Filippo Burla
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