Il Presidente Macron e, a sinistra, il Primo Ministro Philippe
Parigi, 27 nov – “Il governo […] difenderà le industrie nazionali più importanti contro ogni acquisizione ritenuta ostile. Non siamo ingenui e non esiteremo a schierarci se i campioni dell’economia […] saranno a rischio di acquisizione. Questa vigilanza non riguarderà solo i settori della difesa e della sicurezza, ma tutti i settori, compresi quelli dell’agroalimentare e dei cosmetici”. La sovranità economica e industriale spiegata in poche righe, con una semplicità difficilmente eguagliabile. A parlare non è tuttavia il leader di un nascente partito populista, intento a colpire la cosiddetta pancia dell’elettorato. E neppure il primo ministro di uno degli Stati di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), che tanto si sono distinti di recente per le prese di posizione contro i diktat di Bruxelles.
Un aggettivo, “francese”, è stato volutamente omesso dalla citazione di Eduard Philippe, il primo ministro scelto dal presidente Macron, che così si è espresso durante un incontro del consiglio nazionale delle industrie d’oltralpe. Elisione non tanto frutto di un artificio narrativo, quanto utile a sottolineare la validità dell’affermazione al di là di qualsiasi limitazione territoriale: ovunque ci sia un’industria “importante”, un “campione dell’economia”, anche al di là dei “settori della difesa e della sicurezza”, secondo il capo del governo francese si rende necessaria una forma di vigilanza e un interventismo di primo livello.
Il fatto che tale posizione provenga da un primo ministro scelto dal più giovane inquilino dell’Eliseo, accolto come il miglior argine al pericolo populista e sovranista rappresentato dal partito della Le Pen, più che sottolineare un ovvio, tuttavia non così rilevante, paradosso della vulgata politicamente corretta, ci permette di focalizzare l’attenzione sugli obiettivi che un tale approccio sottende. Al di là della proverbiale eredità della grandeur francese, non si può infatti credere che la dichiarazione di Philippe sia solo di facciata: basti vedere come si sono messe le cose per Fincantieri, che aveva tentato di acquisire il controllo di Stx France, proprietaria degli importanti cantieri navali di Saint-Nazare.
Nelle parole del primo ministro francese, quello che potremmo definire come sovranismo industriale diviene uno strumento primario di politica economica e del positivo contributo che questa conferisce all’intero sistema. Difficile del resto pensare che l’esecutivo sia spinto da obiettivi diversi da quelli tipici di una visione prettamente economicistica del governo di una nazione, che sempre più spesso sembra ridursi nella sua essenza, appunto, a una mera attività ragionieristica.
La modifica dell’azionista di riferimento di un’azienda operante nei campi meritevoli di una particolare tutela (fra cui Philippe fa rientrare anche quelli dell’agroalimentare e dei cosmetici), determinata da una privatizzazione o da un’acquisizione straniera, può in effetti sortire conseguenze non desiderabili da un decisore pubblico. Ad esempio, in termini di risorse destinate all’innovazione, di investimenti impiegati in attività con orizzonti di remunerazione dilatati o, non meno importante, di impatto occupazionale. Il caso italiano della privatizzazione di Telecom è, sotto tutti e tre gli aspetti citati, assolutamente emblematico.
Per non parlare di quando l’uscita dal perimetro statale di certe realtà industriali si trasforma nella perdita di uno strumento di politica estera, in grado di favorire sviluppo e cooperazione con paesi terzi, magari ricchi di materie prime e capitali derivanti dall’esportazione delle stesse.
Tutti inconvenienti che le grandi istituzioni finanziare transnazionali hanno bene in mente, ma che vengono interessatamente omessi quando nuove privatizzazioni devono ridurre, di un solo paio di decimali e per pochi giorni, il debito pubblico. Oppure quando c’è da aprire qualche mercato dei servizi essenziali agli investimenti stranieri e alla logiche della concorrenza. Incredibilmente, i cugini d’oltralpe sembrano non averlo mai messo in dubbio.
Armando Haller